Piccolo Teatro Città di Ravenna

G.A.D. Gino Caprara & Laboratorio Italiano

RASSEGNA STAMPA


Lunedì 06 Dicembre 2010

+ Al Tatar è fatta solo per attori che vivono e pensano in dialetto

Articolo di spalla relativo alla messa in scena di Al Tatar

Dopo l'esperienza entusiasmante quanto faticosa di allestire il "Byron" di Giovanni Spagnoli ho sentito la necessità di tornare a un testo classico.
In verità, contrariamente a quello che molti continuano ad affermare, penso che vi sia a disposizione una copiosa disponibilità di testi validi: molti scaturiti dalla fertile fantasia di valenti scrittori del secolo scorso, ed alcuni opera di quei pochi che possono essere considerati autori contemporanei; tuttavia una qualità sufficiente per dover scongiurare di dover ricorrere ad odiose traduzioni di opere scritte in altre lingue.
Un rischio che si corre è rappresentato dal fenomeno del continuo proliferare di nuove "compagnie" (e qui occorrerebbe una riflessione che mi riservo di fare in altra occasione) per cui a volte succede di scegliere un testo in contemporanea con un altro gruppo e si sa che l'area di fruizione non è poi così vasta.
Dunque dovendo scegliere un classico, quale migliore occasione per riproporre, dopo oltre un decennio, l'opera capostipite del teatro in dialetto ravennate, quella che definisce "tàtara" la persona che assilla il prossimo con le sue fisime fino al limite della paranoia.
"Al tàtar" fu scritta da Eugenio Guberti (1871 - 1944) nel 1920, e fu rappresentata per la prima volta, con successo sorprendente, al teatro Rasi di Ravenna il 13 marzo del 1921 e diverse furono le serate di replica.
Siamo quindi prossimi al novantesimo dal suo debutto e anche questa mi è parsa una buona ragione perché la scelta cadesse sull'opera del Guberti.
La commedia non è di quelle che inducono a rimaneggiamenti di sorta ed è invece un'opera che, per il suo valore storico-linguistico necessita di una estrema fedeltà al testo.
Il linguaggio dell'epoca, infarcito di parole e interiezioni ormai in disuso, imprimono a dialoghi e monologhi un ritmo particolare che, di solito, lo spettatore avverte quasi senza rendersene conto.
Prova ne sia che gli stessi attori, anche i più navigati, hanno incontrato difficoltà nella lettura del testo proprio per questa sua peculiarità.
Eugenio Guberti, autore di non più di una decina di testi, in "Al tàtar" affronta e risolve in modo particolarmente felice una vera e propria commedia ad intreccio la cui vicenda, pur di per sé semplicissima, è continuamente vivificata dalla originalità di personaggi sempre marcatissimi, anche quando non appaiono, ma vengono solo descritti.
Si comincia dunque con Gargori (Mario Emiliani ne è l'interprete), il padrone di casa, dal carattere scontroso, con l'ossessione di non essere mai rispettato abbastanza al punto da rendere assai difficile la vita di moglie e figlia.
Si passa poi alle irruzioni di Gabariel (Giordano Pinza) dotato di una loquacità tale da esasperare tutti coloro che sono costretti ad ascoltarlo.
Fanno da contraltare Bandet (Bruno Vitali), rivale di Gargori, succube di una miriade di mali spesso immaginari, e Basciané (Renzo Gentili) vicino di casa scroccone e pettegolo.
Nemmeno Celso (Nicola Minguzzi si alterna con Paolo Soprani), il giovane innamorato è immune poiché viene rappresentato con la fisima tipica del cacciatore: quella del dire più che fare.
Fuori dal coro entrano poi nella vicenda un Archimede, fiaccarista di professione e beone per diletto oltre ad un malcapitato turista inglese estasiato dalle bellezze naturali della pineta ravennate.
Solo le donne si salvano: infatti sia Betta (Vitaliana Pantini), quella santa donna moglie di Gargori che Zaira (Elisa Gori), la loro bella figliola, rientrano nei canoni della normalità, ma con il ruolo ingrato di povere vittime dell'intera vicenda.
Se, come dicevo, il testo non consente di debordare, è stato necessario porre una cura particolare anche nei costumi, curati da Vitaliana Pantini con la preziosa collaborazione di Gabriella Ghirardelli e nella scenografia, di particolare efficacia, ideata da Francesco Fiori; il tutto per rendere al meglio un ambiente piccolo borghese ove si svolge la vicenda.
L'unica licenza è stata riservata alle musiche che si ascoltano in determinati passaggi dello spettacolo poiché l'occasione mi è parsa propizia per ricordare un altro illustre personaggio della nostra Romagna, Zaclén, al secolo Carlo Brighi (1853 - 1915), il padre della musica da ballo romagnola.
Alcune sue composizioni, infatti, mi hanno consentito di effettuare le sottolineature musicali con brani d'epoca.
Un'altra iniziativa, e questa "a comodità del pubblico" come dice l'autore, riguarda la stampa del programma di sala che contiene un piccolo glossario con il significato di quasi trecento vocaboli, di ormai raro utilizzo, oltre che la descrizione di oltre venti siti ove erano ubicati i luoghi della Ravenna del tempo, citati nel testo, ma resi irriconoscibili dalle trasformazioni che si sono succedute in quasi un secolo.
Credo infine di poter affermare, senza presunzione ma anzi con una punta di amarezza, che questa commedia, più di ogni altra, nella sua veste originaria avrà sempre meno spazio negli anni a venire poiché per renderla gustosa e piacevole è indispensabile che i personaggi siano interpretati da attori che parlano, pensano e pregano in dialetto romagnolo e la nostra mi pare sia una delle ultime generazioni con questa caratteristica.
Dunque ecco un'altra delle ragioni della scelta che, mi auguro, costituisca per il pubblico un momento piacevole oltre che una opportunità da cogliere.